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Quella dei marò arrestati in India è una vicenda confusa, gestita malissimo fin dall'inizio e decisamente sottovalutata.
In primo luogo non si riesce ancora a capire cosa sia effettivamente successo: i marò hanno sparato dall’Erica Lexie contro l’imbarcazione indiana oppure no? Gli occupanti di questa erano armati? La barca si è avvicinata alla petroliera italiana con manovre aggressive?
Ricordiamo che tutto si svolge in mare, un’area in cui i tempi di reazione a qualsiasi minaccia sono molto dilatati rispetto agli altri due ambiti militari (terra e aria). Prima che un'imbarcazione si avvicini ad un'altra tanto da destare sospetti od allarmi c'è tutto il tempo per reagire con la dovuta calma, soprattutto e parte di professionisti.
Possibile che non ci sia neppure un’immagine, una traccia radar, delle comunicazioni radio o, addirittura, le registrazioni della scatola nera? Se questi dati ci sono, perché non sono stati diffusi?
In casi del genere il peso dell’opinione pubblica internazionale è essenziale…
Quindi l'errore iniziale è stato, per lo meno alla luce di quanto è dato oggi sapere, sicuramente dei nostri uomini, sia che il "peschereccio" indiano fosse effettivamente una nave pirata oppure no.
Un secondo grave errore, poi, è stato l'aver seguito la guardia costiera indiana fino al porto, uscendo quindi dalle acque internazionali e, soprattutto, far sbarcare i marò.
Nessun comandante inglese, americano o francese lo avrebbe mai fatto.
Si è così consentito che due militari impegnati in una missione sotto l'egida dell’Unione Europea e della NATO uscissero dall'extraterriotorialità garantita dalla nave (art. 4 e 6 c.p.) per consegnarli ad un Paese che, addirittura, prevede per i fatti contestati la pena di morte.
Duplice inqualificabile errore: lo Stato non estrada i propri giudicabili (se i marò sono colpevoli, li giudica l'Italia: vedasi ad esempio Corte di Cassazione, Sezione VI penale,
Sentenza 22 luglio 2010, n. 28995) e lo Stato non consente in ogni caso l'estrazione verso paese che prevedono la pena di morte (art. 705 c.p.p. e Corte Cost. 223/96).
Se non è lecito agire in questo modo in caso di estradizione, figuriamoci in presenza di una confusa operazione di “polizia”, ad opera tra l’altro di un paese che non è certo noto per la finezza delle relazioni diplomatiche…
Da qui in poi ci scontriamo col desiderio di protagonismo del governo indiano, che vuole "mostrare i muscoli" al mondo, esibendo sfacciatamente la propria autorità ed un'indifferenza arrogante nei confronti delle norme di diritto internazionale universalmente riconosciute (tra tutte, l’art. 97 della Convenzione di Montego Bay del 1982, “United Nations Convention on the Law of the Sea”, secondo cui: “In caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell'alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave o di qualunque altro membro dell'equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera”. Convenzione, si noti, ratificata anche dall’India!), vuoi per ribadire il proprio “peso” al fine di ottenere l’agognato seggio all’ONU, vuoi per ragioni politiche interne, vuoi per la questione delle commesse militari, come anche è stato detto…
A tale sfrontatezza fa eco la timida reazione del Governo Italiano e delle istituzioni sovrannazionali, UE in primis, che paiono accettare supinamente le sbruffonate di politici e giudici indiani, i quali rivendicano la propria giurisdizione "usque ad sidera" (pensiamo a Geddafi col limite della "sue" acque territoriali).
Ricordiamo che i marò non erano imbarcati per uno sfizio italiano, ma su espressa indicazione dell’Unione Europea, nell’ambito dell’operazione Atalanta (che a noi italiani costa solo quest’anno la bellezza di 50 milioni di euro: DL 215 del 29 dicembre 2011) e della NATO (operazione Ocean Shield).
A questo punto l'Italia avrebbe dovuto fare una cosa sola: dichiarare formalmente all'Assemblea dell’ONU che, se non veniva immediatamente riconosciuto ai marò lo status di militari impegnati in missione di peacekeeping, sarebbero stati ritirati tutti i 9.000 militari italiani impegnati in venti paesi del mondo in missioni di pace: le regole di tali missioni devono valere per tutti e non possono esistere partecipanti di sere A e di serie B.
Nell’ultimo un secolo l’Italia ha partecipato a circa 200 missioni di pace internazionali impiegando decine di migliaia propri militari, per una spesa che oggi è di 1,4 miliardi di euro all’anno ed un sacrificio di 150 giovani vite umane: un tributo di sangue che non richiede ulteriori commenti.
Peraltro, sarebbe tempo che questi rampanti “Paesi Emergenti”, come il Brasile e l’India, che scalpitano per il loro posto al sole (che se ieri per noi era l’Africa, oggi per loro è un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU…), ma ignorano bellamente le regole del diritto sovrannazionale, si facessero direttamente carico delle responsabilità e dei doveri reciproci che un ruolo internazionale richiede.